venerdì 22 aprile 2011

ULTIMO GIORNO A TOKYO

Vivere questi giorni a Tokyo mi ha insegnato molto su questo popolo, che frequento da anni e che ho imparato ad amare e a odiare per la sua lontana, lontanissima visione del mondo e della vita, che dimostra nella quotidianità, sempre frenetica, superficiale, ubriaca, al limite della visione onirica del giorno che passa, nelle ore lavorate, nelle ore passate a scacciare pressioni, stanchezza, sottomissioni, in giochi demenziali in locali sovraffollati, dove tutto si confonde e si accomuna in unico pensiero che si mischia a quello del fumo, che è quello di fuggire dal giorno passato e non pensare a quello che si avvicina, e poi affogare nei fumi di alcol leggero o pesante che sia, basta dimenticare e assopire la fame di vita che non può che essere sentita e profondamente cercata anche da questo popolo, che vive in uno stato che annienta l'individuo per il bene sempre comune e collettivo, che nega il riposo al lavoratore per il bene della società. Il lavoro, il bene superiore di questa società che fu il mezzo attraverso il quale superarono la lacerazione atomica affogando il proprio orgoglio e riemergendone più forte di prima fino a diventare la potenza economica che abbiamo conosciuto. E sicuramente il lavoro sarà il mezzo grazie al quale risorgerà anche questa volta dalle ceneri e dal fango che lo ha travolto. E non è la prima volta, l'abbiamo già visto dopo il terremoto di Kobe, quasi ormai dimenticato, coperto dalla coltre del tempo che svanisce e attutisce le ferite. La forza di questo popolo però ci colpisce perché risorge sempre come una fenice dalle proprie ceneri, allontanandosi dalle proprie ceneri come i ricordi si affievoliscono man mano che ci si allontana nel tempo. Quanto questo sia giusto o ingiusto non è giudicabile. Abbandonare la propria casa con i ricordi sepolti insieme ai familiari e agli amici e continuare ad andare avanti, è il dna della vita. Senza questa convinzione, o forza che sia, tanto varrebbe soccombere subito e suicidarsi, come molti, in questo Paese, decidono di fare nel silenzio di tutti, soprattutto di chi dovrebbe comprendere che questo fardello, chiamato responsabilità, non sempre è sopportabile. E allora non giudichiamo chi riesce a ingoiare il dolore e ad andare avanti perché l'alternativa oltre a soccombere, è appoggiarsi a qualcun altro che prenda questo peso al posto tuo, che riesca a capire quale siano i tuoi veri bisogni e porti avanti tutto al posto tuo. Ma dov'è? Chi é? Il governo, un volontario, un marito, un amico? E per quanto tempo potrà farlo? E intorno a te tutto e tutti vanno avanti. Perché fermarsi non è dignitoso, perché l'alternativa è più umiliante dell'arrendersi e lasciarsi andare.
Questo vale per i sopravvissuti del terremoto, dello tsunami, e per tutti coloro che hanno perso qualcuno, non solo a Miyagi, non solo in Giappone, non solo l'11 marzo, ma anche ieri, qui e ovunque; dissimulare e ingoiare i propri sentimenti, le proprie emozioni per la perdita di tutto ciò che consideri necessario, come la casa, come un familiare, magari un padre, è una reazione universale: lavorare prima di tutto, così ti illudi che il dolore passi.

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